La cosa più paurosa

  Teatro Contemporaneo di Alice Capitanio con Valentina Fadda “La cosa più paurosa è la morte: essa infatti è il nostro termine” – Aristotele La paura di morire è definita dai ricercatori “ansia della morte”. Negli ultimi decenni molti libri e articoli scientifici hanno trattato l’argomento. Gli studiosi hanno classificato l’ansia della morte in varie tipologie, che includono la paura del dolore, dell’ignoto, di perdere i propri cari e la paura delle conseguenze per chi rimane. Ma scavando nell’inconscio individuale e collettivo, queste paure sono generate unicamente per nascondere l’unico vero, grande terrore di ogni uomo: la paura di cessare di esistere. La paura di scomparire e non esistere più. La conseguenza è la fuga dall’idea stessa di morte, una sorta di tanatofobia che nega la fragilità umana riflettendosi in una società che vede la forza e l’illusione dell’immortalità come unica forma di resistenza. La performance è un invito allo spettatore ad affrontare la paura della morte senza negarla. Un’ attrice accompagnerà gli spettatori in un percorso di visualizzazione della propria morte attraverso una struttura scenica scarna,con la possibilità di interagire con gli oggetti scenici: una bara, una sedia, dei fiori, e un nome: il proprio. Un’esperienza one to one in cui lo spettatore è guidato all’interno della propria camera mortuaria per ritagliarsi un momento di congedo da sé stesso, l’ultimo saluto alla propria vita, al proprio nome, alla propria possibilità di essere presente,azioni che diventano la presa di coscienza del proprio ineludibile dovere biologico.L’obiettivo del progetto è indurre lo spettatore a meditare sull’immagine della propria non esistenza, sentendo, attraverso il proprio limite, la fragilità dell’elemento umano, per potersi finalmente concedere il diritto a riconoscersi come essere fragile e temporalmente limitato: consapevolezze imprescindibili per godere della vita a pieno e valorizzare la nostra breve possibilità di esistere

Colorfulness

Teatro contemporaneo di Alice Capitanio Praticien Stefanie Tost Ispirato alla pratica del CloseLieu, la performance presenta uno spazio allestito come la rigorosa pratica impone: la tavolozza al centro, i muri pronti ad accogliere i fogli bianchi e un Praticien che trasmette le regole. Uno spazio che non assomiglia a nessun altro luogo in cui il Praticien si manifesta con atti continui che servono il gioco e lo strutturano, iniziando i partecipanti ad un’altra morale dell’esistenza: quella del non giudizio. Esiste un bisogno di tracciare sé stessi attraverso i colori. Esso si manifesta perché noi possediamo una memoria, registrata nell’inconscio, che ci ricollega alle nostre origini. Le tracce emergono per riequilibrarci e far fluire queste registrazioni. Questo è il vero fondamento dell’espressività creativa. Ma attenzione, c’è differenza tra traccia e disegno. La traccia nasce da una necessità insita in ogni essere umano e ciascuno possiede la capacità di esprimerla. Durante l’infanzia però viene tolta la reale funzione a questa necessità, che viene sviata verso il disegno che invece è un canale aperto verso l’esterno. Il disegno, che nasce per mostrare, è incontestabilmente un mezzo di comunicazione con gli altri, mentre la traccia è un sistema di comunicazione con sé stessi. Colorfulness è una performance che valorizza la traccia, segno che si manifesta per il solo piacere della persona che lascia che si produca. Durante la performance, giocando con i colori, i partecipanti vivono sé stessi e liberano la propria traccia al di là di ogni valutazione e giudizio. Nella quiete immutabile della performance ogni persona, qualunque sia la provenienza e le sue esperienze, ritrova il piacere della propria spontaneità. Il praticien che dirige la performance avrà il dovere di custodire le tracce liberate senza mai sottoporle allo sguardo esterno. L’obiettivo è riscoprire il proprio essere, ridando spazio a necessità soffocate, sviluppando capacità insospettate, ricreando un luogo di concentrazione e permanenza al riparo da incitamenti e sollecitazioni esterne. Colorfulness è un momento per vivere insieme il gioco del dipingere, un gioco fatto di equilibrio tra il rigore e la libertà, tra l’individuale e il collettivo, tra ciò che detta la ragione e ciò che impone una segreta necessità organica. Durata: 20 minuti

Supercittadini

Teatro ragazzi di Alice Capitanio con Valentina Fadda e Angelo Trofa Regia di Alice Capitanio Pensiamo sia essenziale riconoscere e dare valore allo sviluppo di una propria personale responsabilità sociale e crediamo che ciò sia possibile anche nei confronti dei bambini, per quanto piccoli siano. Responsabilità e libertà sono due concetti inscindibili ed indispensabili per l’esercizio della democrazia. Soltanto se i cittadini sono liberi e capaci di gestire la propria libertà, perché sanno rispondere agli altri dei loro comportamenti, ovvero tengono comportamenti che rispondono agli altri, è concepibile che la sovranità appartenga al popolo e che questo governi. Ma per sapere gestire la propria libertà è necessario educarsi alla responsabilità fin da quando si inizia ad essere in relazione con altri, e cioè fin da piccoli. Ecco, quindi, l’utilità di questa iniziativa, indirizzata proprio alla crescita della responsabilità personale fin dalle scuole primarie. DESCRIZIONE Non sarebbe bello vivere come ci pare e fare a meno delle regole? Qualcuno pensa di si. Eppure per poter vivere insieme agli altri le regole condivise da tutti sono necessarie: servono regole condivise per misurare il tempo, per comunicare attraverso il linguaggio, per giocare a pallone, per vivere in un condominio e per gestire le relazioni con gli altri. Si parla di regole, legalità, e di leggi, ma sono parole buone o cattive? Proviamo con questo gioco a scoprirlo insieme. Super Cittadini è uno spettacolo divulgativo con finalità didattiche. Impostato sul modello del classico gioco dell’oca, è pensato con l’intento di informare, divertire e coinvolgere il pubblico dell’infanzia sul tema della cittadinanza consapevole, intesa come corretta partecipazione dei cittadini alla dimensione civile e sociale nello spazio urbano ed extra urbano. L’obiettivo è incoraggiare i più giovani a confrontarsi sui temi del senso civico, della cura dell’ambiente e del rispetto delle regole nell’ambito delle relazioni umane . Passo dopo passo, lungo il percorso del gioco, i partecipanti acquisiranno importanti strumenti per tagliare il traguardo finale e diventare dei Super Cittadini. Lo spettacolo/gioco sarà seguito da un dibattito con un esperto. DESTINATARI Bambini dai 6 ai 10 anni. ISTRUZIONI DEL GIOCO/SPETTACOLO Il gioco, strutturato come una sfida tra più classi o gruppi, verterà su 5 aree tematiche: > salvaguardia dell’ambiente > educazione stradale > rispetto dell’ambiente urbano > regole di educazione e relazione tra individui > comportamenti incoscienti da evitare Il gioco sarà diretto da due attori/moderatori. I partecipanti verranno divisi in due gruppi. Sul pavimento verrà disposto un gigantesco gioco dell’oca, con un percorso diviso in caselle che terminerà con l’arrivo alla casella del traguardo. Ogni classe sarà rappresentata da uno studente/pedina (scelto dall’attore/moderatore), che si muoverà assecondando le scelte e le direttive della propria classe all’interno del percorso. La classe/gruppo che raggiungerà per prima il traguardo denominato Cittadinanza Consapevole sarà la vincitrice del gioco. Per procedere lungo il percorso e tagliare il traguardo ogni classe dovrà dimostrare di avere le conoscenze adeguate per superare le prove indicate sulle caselle: quiz da risolvere, missioni da compiere, test, giochi, quesiti, e trabocchetti saranno proposti dall’attore/moderatore che durante il gioco farà da guida ai ragazzi nel variegato mondo dei comportamenti sociali corretti e scorretti, condividendo con loro anche numerosi dati e informazioni. TEMI TRATTATI > Educazione civica > Rapporto tra i comportamenti messi in atto e la sostenibilità ambientale ed urbana. > Regole e buone pratiche per convivere in armonia nel rispetto delle diversità > Educazione stradale > Comportamenti incoscienti da evitare Le regole giuridiche del convivere sono in perenne moltiplicazione, tanto quanto il loro mancato rispetto. Si moltiplicano le regole, ma le dinamiche sociali non mutano, perché bisogna ripartire dalla formazione dell’individuo, come cittadino coinvolto nella partecipazione alla dimensione civile e sociale. Per collaborare positivamente allo sviluppo della società di cui si partecipa, è necessario essere coscienti di alcuni doveri da rispettare, ed essere animato da sentimenti di solidarietà verso gli altri, rispettare l’ambiente esterno e le risorse naturali. Senso civico significa non solo riconoscersi nell’inno nazionale o nella bandiera, ma anche in tutti quegli elementi che costituiscono gli emblemi della cultura e del paesaggio comunitario. OBIETTIVI > Creare un momento di condivisione sulle tematiche relative alla cura degli ambienti urbani ed extra urbani, all’educazione stradale, alle dinamiche di relazione tra le persone. > Informare gli studenti dei pericoli, dei danni e degli sprechi economici che comportano alcuni comportamenti incoscienti. > Sviluppare lo spirito di aggregazione tra gli studenti.

Mandela: immaginare la libertà

Teatro ragazzi di Alice Capitanio con Alice Capitanio Regia di Alice Capitanio   Lo spettacolo è composto da una serie di letture, tratte da libri e altri scritti che raccontano la vita di Nelson Mandela, che disegnano per il pubblico una mappa per spiegare la figura dell’uomo, del politico e soprattutto del sognatore Mandela. Un invito ai più giovani per riflettere sul significato della parola libertà e sulle occasioni per conquistarla. La rappresentazione prevede vari momenti di interazione con il pubblico, e si apre con un invito agli studenti: Scrivete su un foglio quale sia la vostra personale definizione di libertà, poi mettetelo da parte, lo riguarderete alla fine e mi direte se qualcosa in voi è cambiato. L’ idea da cui nasce lo spettacolo è quella di far incontrare le idee del giovane rivoluzionario Mandela con le idee dei giovani di oggi e aprire un confronto tra il mondo reale e un mondo desiderato. Partendo dalla consapevolezza che i desideri si possano trasformare in realtà attraverso la passione e l’integrità, come nel caso di Mandela. Nelson Mandela è stato definito il più grande statista dell’era moderna perché incarna l’eroe politico che trascende, con il suo messaggio, i confini nazionali e, così facendo, diventa un’icona globale. La sua è stata certamente una vita eccezionale, un viaggio straordinario iniziato nel Sud Africa dell’apartheid e passato attraverso la violenza politica per terminare alla presidenza della nazione. Condannato all’ergastolo per il suo ruolo nell’African National Congress, Mandela ha trascorso 27 anni ai lavori forzati perché considerato un terrorista. Durante i primi tre anni, trascorsi a spaccare pietre in una pietraia infuocata dal sole, subì danni irreparabili agli occhi perché, con un trattamento disumano, non gli fu permesso di indossare gli occhiali da sole. Eppure, rilasciato nel 1990, Mandela non ha pensato alla vendetta, ma alla riconciliazione: Il passato è passato, guardiamo al futuro del Sud Africa, un futuro di gente di tutti i colori, un arcobaleno di umanità. Questa in sintesi fu la sua strategia. Il modo migliore per ricordare ed onorare la vita dell’ultimo grande eroe del XX secolo è prenderlo ad esempio. Mandela, come Ghandi e Martin Luther King prima di lui, hanno combattuto battaglie reputate, ai tempi, impossibili, e lo hanno fatto sfidando la visione del mondo tradizionale espressa dall’opinione pubblica, in nome dell’eguaglianza tra gli uomini. Razza e colore della pelle erano le discriminanti fondamentali, e quindi si sono battuti per abolirle. Lo hanno fatto con tutti i mezzi a loro disposizione ed usando le strategie più efficaci. Ci sono riusciti ma al prezzo della vita per Ghandi e King e della lunga prigionia per Mandela. Oggi ci sembra assurdo che un regime come quello dell’apartheid sia mai esistito, che bianchi e neri vivessero segregati, che indiani, bianchi o neri non potessero sposarsi e vivere gli uni accanto agli altri. Come ci sembra assurda l’idea che negli Stati Uniti ci fossero fontanelle separate per i bianchi ed i neri, e che gli inglesi fossero i proprietari dell’India, ma era così. Quali sono le diseguaglianze del nostro tempo? Riflettiamo insieme su questo interrogativo.

I Shot Andy Warhol

Teatro contemporaneo di Alice Capitanio con Caterina Ghidini e Tiziana Martucci Regia di Alice Capitanio Assistente alla regia: Vanessa Podda Progetto luci: Lele Dentoni Scenografie e costumi : Salvatore Aresu Responsabile di produzione: Luca Sorrentino   Lo spettacolo è ispirato alla vita vera di Valerie Solanas, lesbica, femminista separatista e fondatrice di una società per la castrazione del maschio. Il 3 giugno 1968 la Solanas attentò alla vita di Andy Warhol, icona della pop art americana. Passò tre anni in un manicomio criminale, ai quali replica breitling seguì un’esistenza randagia. Da questo episodio nasce lo spettacolo I shot Andy Warhol. Una continua lotta tra ragione e schizofrenia: è questo il filo conduttore dell’intero spettacolo, che vede Valerie rinchiusa, in compagnia solo di un letto, di un tavolo e di una macchina da scrivere con cui narra la sua vita. Alle sue spalle ci sono dei pannelli su cui sono raffigurate delle radiografie di animali: un puntuale richiamo alla sofferenza e alla frammentazione della sua personalità. Le due attrici protagoniste si alternano nel personificare la lucidità e la pazzia, tra danze psichedeliche e urla, specchio di un profondo disagio che permea una donna, vittima degli abusi sessuali del padre per tutta l’infanzia. Dopo questo trauma arrivano l’accattonaggio e la prostituzione, ma anche una laurea in psicologia all’Università del Maryland, fino al trasferimento al Greenwich Village e al primo incontro con Andy Warhol. Il contatto con il celebre artista è l’inizio di un’ossessione che porterà Valerie Solanas al tentato omicidio, che i media attribuiranno al rifiuto di Warhol di utilizzare “In culo a te”, un copione della Solanas che racconta la relazione tra una prostituta e un vagabondo, troppo spinto persino per un maestro dell’eccesso come lui. Lo stesso Warhol, con tanto di replica rolex uk parrucca, viene rappresentato in scena, in uno dei momenti centrali dello spettacolo (“Picasso nella sua vita ha realizzato 4000 capolavori, io li avrei fatti in un giorno”, “Io sono come un registratore con un solo tasto: cancella”, “Se volete sapere qualcosa di me guardate la superficie dei miei quadri, è tutto lì”). Dopo gli spari il regista non fu più lo stesso e cominciò a evitare ogni minimo contatto fisico, e diversa divenne anche la vita della protagonista, relegata in un manicomio criminale per tre anni e preda di continue crisi isteriche che culminavano in invettive contro la mancata vittima, accusata di vendere se stesso e gli altri, e contro la figura maschile in generale, in nome di un potere femminile, teorizzato nel manifesto di un immaginario movimento femminista ultraradicale, lo SCUM. I shot Andy Warhol è una rappresentazione in cui traspare la vicinanza tra le due donne protagoniste e la sfortunata Solanas, che ha combattuto delle battaglie contro una società maschilista che, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, cercava di frenare l’aspirazione delle donne a una condizione migliore. Anche tralasciando le teorie,a volte farneticanti, della leader dello SCUM, riconducibili anche all’ampio panerai replica watches uso di droghe, rimane però la certezza che il mondo sarebbe un posto migliore senza chi esercita violenza nei confronti delle donne. — New York 1978. Non è morta. Non è stata, come si era persino detto, lobotomizzata. E non è neppure vero che se ne stia sepolta nelle tenebre di un ospedale psichiatrico. Valerie Solanas, l’attrice che anni fa, scrivendo il manifesto di un immaginario movimento femminista ultraradicale, lo SCUM, lanciò la parola d’ordine dell’eliminazione dei maschi e poi, il 3 giugno del 1968, si presentò in casa del più famoso artista americano, Andy Warhol, e gli sparò con un’automatica calibro 32, è viva. Abita negli slums della parte bassa di Manhattan in assoluta povertà, in precaria salute e sta progettando un libro. D – Valerie, puoi dirci che si tratta? R – Non posso anticipare ma ho un progetto grandioso, lo venderò e guadagnerò cento milioni di dollari, spiegherò anche perché ho sparato a Warhol, farò un implacabile requisitoria contro altri parassiti come Warhol. D – Perché gli hai sparato? R – Hanno detto che gli ho sparato perché mi aveva rifiutato un copione. Non è vero. Certo gli avevo portato una commedia che si intitolava “In culo a te”: così sono cominciati i miei rapporti con lui. Ma lui è un abile uomo d’affari. Ha un gran talento per vendersi. Vende tutto: se stesso, gli altri. Però stavolta dovrò sbavare un bel po’ prima di avermi di nuovo. D – E gli volevi proprio sparare o fu un errore? R – No, no: lo volevo. Quell’artista di merda! Partii apposta dalla California, dove stavo in quel momento, per sparargli. Anzi prima andai a Reno in Nevada; allora là le armi si compravano con grande facilità. Mi comprai un’automatica. Poi quando arrivai a New York per paura che l’automatica non funzionasse, corsi nel Vermont e me ne comprai una seconda. Con entrambe le pistole raggiunsi la Factory, trovai Andy, lui gridava “Non farlo, non farlo”, e io gli tirai tre colpi nel petto. D – E gli uomini? Li vuoi ancora eliminare fisicamente? R – Il maschio è intrappolato in una zona d’ombra a metà strada tra l’essere umano e la scimmia; ma sta molto peggio di loro poiché dispone di una vasta gamma di sentimenti negativi: odio, gelosia,disprezzo, sensi di colpa, vergogna, insicurezza e, come se ciò non bastasse egli è inconsapevole di ciò che è. D – Le chiedo se sappia che in giro la danno per morta. R – La storia della mia morte ha fatto il giro del mondo, hanno persino detto che sarei stata trovata morta in un albergo di Parigi. Ma io a Parigi non ci sono mai stata. Non saprei dire come nascono tutte queste storie. Un francese ha persino scritto un libro Tombeau pour Valerie… Forse sono lo spirito di me stessa. Durata: 50 minuti

Nel Vuoto

Teatro contemporaneo di Alice Capitanio con Dany Greggio, T.Martucci, G.Pornasio, L.Sorrentino Regia di Alice Capitanio Aiuto regia Vanessa Podda Progetto luci Stefano Damasco Scenografia e costumi Salvatore Aresu e Roberta Serra Sound design Davide Sardo     “De-pensarsi”… finché non vi sia più nulla di sé e tutto si perda nel vento e nel sole, nulla, tranne un piccolo punto di dolore. Una nuvola vista dalla finestra, una malattia, un addio sulle scale di casa, un libro, una figlia mai nata, tutto è occasione e pretesto per trascrivere sulla scena la condizione di vuoto esistenziale in cui la vita e il suo sentire vengono sconvolti: l’ordine e la sicurezza che la vita sembrava avere, si manifestano nella realtà della loro inconsistenza. Storie di vita al limite della vita, dove i personaggi si trasferiscono nella dimensione astratta della mente, che si costruisce sull’assenza di una condizione soddisfacente di esistenza. Come si muovono i personaggi che vivono nel silenzio? Uomini e donne che hanno perso affetti, opportunità e identità scivolano nella via senza ritorno di un esistenza incontrollabile. Il disagio della separazione, la rottura di un percorso che si considerava sicuro: esseri umani perduti nelle stanze delle loro solitudini disegnano una vita che si adatta alle scelte che il caso ha definito per loro nei modi più diversi. Le cadute, i momenti di crisi, i crolli, le disfatte raddoppiano la vitalità negli uomini, o forse gli uomini si trovano a vivere veramente solo quando si trovano con le spalle al muro. Esiste un vuoto che si scopre nell’emergenza della sofferenza interiore. Un vuoto che è anche urgenza di ricerca . Un vuoto da colmare, come lo spazio tra due torri isolate, due orli di precipizio, due pianeti, o semplicemente tra il cuore e lo spirito. E forse solo in quella dimensione si può piantare un filo che collegherà ciò che sarebbe rimasto separato per sempre dall’incoscienza. Un miracolo che si realizza. La sintesi di quel momento buio dell’esistenza, un racconto sulla paura e sulla solitudine, un racconto sul sogno e la poesia, sulle altezze crudeli e gli audaci equilibri del vivere.  

Calypso Cosplay

Teatro contemporaneo di Alice Capitanio con Valentina Podda (Cosplayer) e gli studenti della Scuola di arte drammatica: Federica Demontis, Stefania Perra, Federico Piras, Ludovica Riccardi   Sappiamo ancora congedarci e dire addio? Siamo davvero all’altezza della nostra frenesia di cambiare orizzonte e cielo e terra, di uscire dagli schemi? Saltare fuori dalla routine dei nostri schemi comportamentali? Rischiare tutto quel che abbiamo per inseguire la nostra indole, i nostri ideali e sogni, e la voce interiore della nostra essenza? Dopo sette anni Ulisse abbandona una vita perfetta: immortale, amato e al sicuro, per tornare all’incertezza del viaggio verso una Itaca che esiste solo nella sua mente. Scelta coraggiosa che interroga le nostre coscienze sul senso del coraggio. Uscire dalle nostre abitudini ci espone all’insolito, al rischio, e in ogni caso alla morte. Potremmo scoprire che un diverso cielo si stende sulla terra, ma potremmo anche veder crollare la volta celeste sulla nostra testa. Per non fermarsi, per essere coerenti con la propria essenza, ci vuole coraggio. Altrimenti il viaggio muore durante il viaggio, e la vita si spegne durante la vita, arrestata in una tappa infinita. In una ripetizione infinita. In Giappone, il secondo principio del Bushido (codice dei samurai) è chiamato Yu, l’Eroico Coraggio, e recita così. Elevati al di sopra delle masse che hanno paura di agire, nascondersi come una tartaruga nel guscio non è vivere. Un Samurai deve possedere un eroico coraggio, ciò è assolutamente rischioso e pericoloso, ciò significa vivere in modo completo, pieno, meraviglioso. L’eroico coraggio non è cieco ma intelligente e forte. Nel nostro tempo questa idea di coraggio non gode, in termini generali, di troppa considerazione, perché confuso troppo spesso con l’idea di eroismo. Ciò che più sembra contare oggi è piuttosto l’idea di sicurezza. Non rischiare, non fare mosse azzardate. Rimanere in una posizione di comfort, non esporci, non parlare agli estranei, stare attenti e vigili, sospettosi del prossimo. Restare al sicuro e non correre rischi non necessari. Ma riconoscere alla stabilità e alla sicurezza personale un’importanza eccessiva induce a condurre un’esistenza improntata al mantenimento, piuttosto che allo sviluppo attivo della coscienza. In questa installazione il coraggioso Ulisse è l’uomo che segue il suo io interiore, e persegue il suo obiettivo assumendo un ruolo di assoluta responsabilità nelle proprie scelte e nelle proprie azioni. Calipso rappresenta invece la condizione in cui l’uomo non si espone, adottando un atteggiamento passivo. Calipso è un lavoro sicuro ma che non soddisfa, è una relazione che va avanti da anni, ma in cui l’amore e la passione son svaniti da tempo. Restare sull’isola di Calipso significa seguire il flusso degli eventi, anziché cercare di assumere la responsabilità della propria vita e determinarne il corso. Scegliere tra questi due archetipi significa vivere la propria natura affrontando con il coraggio del Samurai tutte quelle paure che trattengono dall’esprimersi compiutamente e dall’affermare la propria personalità in modo assoluto. E il Coraggio va inteso come l’abilità di affrontare la paura del fallimento. La paura del rifiuto. La paura di essere umiliati. La paura di restare soli. La paura di non farcela. La paura di non riuscire a ritornare a Itaca. Tutti noi abbiamo queste paure, nessuno escluso. Ciò che ci differenzia, però, è la volontà di riconoscerle, accettarle e affrontarle. Ignorarle, rifiutarle, o semplicemente negarle ci mantiene al sicuro sull’isola di Calipso, in una condizione di torpore della coscienza, infelice e ripetitiva. E rinunciando a diventare dei coraggiosi Ulisse, non realizzeremo mai i nostri sogni. “Il coraggio di immaginare alternative è la nostra più grande risorsa, capace di aggiungere colore e suspense a tutta la nostra vita” Daniel J. Boorstin

Medeademone

Teatro contemporaneo di Alice Capitanio con Alice Capitanio   L’ impossibilità di riconoscere l’ ambivalenza della madre nella mente dei figli. La madre prepara lo spazio, fisico e mentale per i propri figli, sin dalla gestazione contribuisce alla creazione del corpo fisico e psichico del bambino. Partecipa al suo sviluppo nutrendolo, accudendolo, proteggendolo. In ciascuna fase dello sviluppo del suo cucciolo festeggia le mete che il piccolo grande uomo si accinge a raggiungere. Niente lascia presagire che dietro ai festoni, alle candeline e alle torte di compleanno si celi l’ ambivalenza che contrappone a tanto amore altrettanto odio. “Tieni lontano il più possibile i figli, non lasciarli avvicinare alla madre. L’ho già vista mentre li guardava con occhio feroce, come se avesse in mente qualcosa” Euripide, Medea, vv. 89-92. L’ amore materno non è mai solo amore. Ogni madre è attraversata dall’amore per il figlio, ma anche dal rifiuto del figlio. Talvolta il rifiuto ha il sopravvento sull’amore, e allora siamo a quei casi di infanticidio, il cui ritmo inquietante non ci consente più di relegare queste tragedie nella casistica psichiatrica e liquidarle come raptus nel perfetto stile della rimozione. I raptus non esistono, sono comode invenzioni per tranquillizzare ciascuno di noi figli, e tacitare così il timore di essere un giorno anche noi dei potenziali genitori omicidi. Caratteristica del sentimento materno è la sua ambivalenza. Ma i figli nel loro ruolo sono impossibilitati a riconoscerlo per terrore di sfiorare qualcosa che appartiene alla sfera del sacro. La donna, nella sua possibilità di generare e abortire, sente dentro di sé nel sottosuolo mai esplorato della sua coscienza, di essere depositaria di quello che l’umanità ha sempre identificato come “potere assoluto”: il potere di vita e di morte . Nella donna si dibattono due soggettività antitetiche perché una vive a spese dell’altra: una soggettività che dice “io” e una soggettività che fa sentire la donna “depositaria della specie”. Il conflitto tra queste due soggettività è alla base dell’amore materno, ma anche dell’odio materno, perché il figlio, ogni figlio, vive e si nutre del sacrificio della madre: sacrificio del suo tempo, del suo corpo, del suo spazio, del suo sonno, delle sue relazioni, del suo lavoro, della sua carriera, dei suoi affetti e anche amori, altri dall’amore per il figlio. Questa ambivalenza del sentimento materno generato dalla doppia soggettività che è in ciascuno di noi, e che il mondo delle madri conosce meglio del mondo dei padri, va riconosciuta e accettata come cosa naturale e non con il senso di colpa che può nascere dall’interpretarla come incompiutezza o inautenticità del sentimento. Da Medea che, come vuole la tragedia di Euripide, uccide i figli che ha generato esercitando il potere di vita e di morte che ogni madre sente dentro di sè, alle madri di oggi che uccidono i figli nati da loro stesse, nulla è cambiato. Perché questa è la natura del sentimento materno e, piaccia o meno, come tale va riconosciuta e accettata. Dalle madri e dai loro figli, cioè tutti noi.utti noi.

Clinica della Felicità

Quando eravamo bambini esisteva un luogo magico in cui rintanarsi, una dimensione in cui si stava a lungo al sicuro, protetti dalla coperta della propria fantasia: era lo spazio del gioco, in cui per ore si viveva immersi in una realtà fatta di creatività e stupore, in cui sperimentare piccole cose, emozioni e sensazioni. Era lo scopo della vita stessa. Sulla base di queste considerazioni nasce la clinica della Felicità, una performance one to one pensata per riportare, in dosi omeopatiche, il gioco e lo stupore nella vita dei pazienti adulti, che da tempo si sono ammalati di impegni, responsabilità, paure, infelicità e musi lunghi.   Abbiamo immaginato un luogo in cui le piccole cose possano essere la cura per ritrovare la Felicità perduta: uno spazio del calore e della dolcezza, in cui tutto, come da bambini, si risolve con piccole azioni sorprendenti che rendono gioiosa la vita. Perché il bambino, quando gioca, entra in una dimensione libera, in un presente assoluto che spazza via i pensieri e le paure, ed è felice. I problemi si dissolvono nell’universo del gioco. Basta poco, anzi pochissimo. E forse il segreto della felicità sta proprio lì, nel riuscire a lasciarsi andare e scivolare veloci in quel tempo vissuto appieno, dove passato e futuro scompaiono, lasciando il posto a un infinito presente creativo in cui tutto è possibile.   Una performance di Compagnia B Ideazione e progettazione: Alice Capitanio / Direttore di produzione: Luca Sorrentino Performer/ Valentina Fadda Grafica e comunicazione: Barbara Pau, Micaela Deiana Allestimento scenografia: Noemi Tronza   L’accesso alla clinica è consentito a uno spettatore per volta. La performance avrà durata di circa 15 minuti. L’ingresso è gratuito, ed è possibile prenotarsi direttamente in loco.     INFO: comunicazione@compagniab.com

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